Ho un concetto edonistico (e talvolta frivolo) della
letteratura: leggo e scrivo per puro piacere. Adoro che mi raccontino storie, e
che queste siano interessanti.
© Inchiostro, rivista
di storie e racconti da leggere e da scrivere.
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Da molti è considerato
l’autentico erede del suo celebre concittadino Jorge Luís Borges: da un lato,
perché è colui che più si avvicina all’autore dell’Aleph quanto a registro stilistico; dall’altro, per la levatura
delle sue opere. Eppure, Fernando Sorrentino, fedele alla semplicità e alla
modestia che rispecchiano la sua indole, non smentisce la propria volontà di
mantenere quel profilo basso che lo spinge a dire di sé: “Ho la sensibilità
sufficiente per apprezzare il bello poetico, ma non possiedo il talento
necessario per proporre un mio poema degno di nota. Mi piace più leggere che
scrivere, e infatti scrivo poco”.
Il che non è poi così
aderente alla realtà, se è vero che in quarant’anni di attività l’autore
argentino ha prodotto alcune decine fra romanzi e raccolte di racconti,
pubblicati in mezzo mondo, dagli Stati Uniti al Portogallo, dall’Italia alla
Cina, oltre ovviamente a quasi tutti i Paesi di lingua spagnola. Il suo titolo
più famoso è Sette conversazioni con
Borges (Mondadori), frutto proprio della frequentazione di Sorrentino con
il suo maestro e mentore.
Da oltre un decennio,
Inchiostro ha il piacere (e l’onore) di tradurre e pubblicare lo scrittore di
Buenos Aires: in totale, dal 2001 fino all’ultimo numero prima di questo, sono
sedici i suoi lavori – assolutamente inediti in Italia – usciti sulle nostre
pagine.
Come, e quando,
hai cominciato a scrivere?
Credo che leggere e scrivere siano due facce della stessa
medaglia: da quando ho imparato a farlo, io leggevo e leggevo e leggevo e, al
tempo stesso, tentavo di scrivere. Chiaro, mi facevano difetto l’età,
l’esperienza, la conoscenza della lingua e della cultura. I miei sforzi sfociavano in testi che non valevano nulla, ma mi
servivano da apprendistato e da allenamento. Ho avuto bisogno di arrivare più o
meno a ventisette anni per poter produrre qualcosa che non fosse degno del
cestino della carta straccia.
Hanno avuto un
ruolo, nella tua formazione, le lontane origini italiane?
No, per nulla. Benché sia la famiglia paterna (Sorrentino/Sofia)
che quella materna (Susella/Caputi) fossero al cento per cento di origine
italiana, io ho conosciuto soltanto nonni argentini, e in entrambe le famiglie
la lingua è sempre stata esclusivamente lo spagnolo. I miei antenati
raggiunsero l’Argentina nella seconda metà dell’Ottocento, e quando nacqui io
erano già morti. Tuttavia, ogni tanto ho avuto occasione di sentire, da parte di
qualche zio di cattivo umore, alcune espressioni volgari come Ma vaffanculo, va’!, e altre più
enigmatiche, riferite a una persona assente da tanto tempo: Tal dei Tali è morto in Libia.
Hai avuto dei
modelli letterari?
Mi sembra che tutti gli autori, inclusi quelli che non ci
piacciono, influenzino ciò che scriviamo. Io ho un interesse speciale e una
passione per la narrativa che potremmo chiamare insolita o immaginativa o
improbabile, non saprei che nome darle… Amo Borges, Denevi, Cortázar. E senza
dubbio il romanzo più affascinante che ho letto nella mia vita è Il processo di Kafka.
La mia prima folgorazione letteraria la ebbi nel 1955, quando
ancora frequentavo l’ultima classe delle scuole primarie. Avevo letto alcuni
libri per bambini di Constancio C. Vigil e poi, un po’ più grandicello, Cuore di De Amicis e romanzi di Salgari
e Jules Verne. Però,
questi scrittori, definiamoli “formativi”, di fatto scomparvero quando, a
dodici anni, lessi David Copperfield.
Fui rapito da quelle settecentocinquanta pagine che
non stancavano mai e mi resi conto che, fra Dickens e gli altri, c’erano almeno
otto o dieci livelli di differenza.
Da quel momento crebbe la mia capacità critica e si manifestò il
desiderio di dedicarmi a opere celebri che non conoscevo. Appena cominciai il
liceo, comprai il Don Chisciotte
nell’edizione della Biblioteca Mundial Sopena, due tomi a due colonne senza
note esplicative: il testo nudo e crudo. Certamente mi sfuggirono infinite
sottigliezze di natura stilistica, però quelle avventure mi incantarono.
Sono le stesse
passioni di oggi, o i tuoi gusti sono cambiati?
Da giovane “divoravo” di tutto e, in verità, ho letto molti libri
che adesso non potrei sopportare: Servitù
e grandezza militari (Vigny), Le
affinità elettive (Goethe), Eugenia
Grandet (Balzac), Misericordia
(Pérez Galdós)… Ora possiedo una specie di “intuizione” che mi conduce
attraverso percorsi più gradevoli, e preferisco rileggere ciò che so già di
apprezzare: Lazarillo de Tormes, Don Casmurro, Martín Fierro… Ho insomma un concetto edonistico (e talvolta
frivolo) della letteratura: leggo e scrivo per puro piacere. Adoro che mi
raccontino storie, e che queste storie siano – nel significato migliore del
vocabolo – interessanti. Per la stessa ragione, non mi è mai sembrato utile dedicare
la mia attenzione a libri irritanti, sciocchi e pesanti, né tanto meno farlo
spinto da qualche imperativo categorico.
È stata
importante per te la tradizione letteraria sudamericana?
Quando uscì Cent’anni di
solitudine, ne rimasi conquistato. Molti anni dopo lo rilessi e non mi
piacque: aveva perduto la sua principale attrattiva, che, in realtà, era una
specie di “colpo basso”: la sorpresa. Credo che mi abbiano convinto di più Juan
José Arreola e Augusto Monterroso. Altri autori ispanoamericani sono più
lamentosi, “impegnati” e, secondo me, infinitamente tediosi: per esempio, il romanzo plumbeo El señor presidente di Asturias. Prediligo una certa linea
argentina, diciamo, di immaginazione: Borges, Mujica Láinez, Bioy Casares,
Cortázar, Denevi (Denevi, che piacere straordinario…!).
Quanto ha contato
Borges nella tua vita?
Moltissimo, e in moltissimi sensi. Se la prima folgorazione la
ebbi con Dickens, la seconda, a diciott’anni, mi venne da Borges, quando lessi
i racconti di Finzioni; in quel
momento, affascinato, avvertii la sensazione di trovarmi di fronte a un esempio
unico, a una letteratura magica che non aveva paragoni, nell’accezione assoluta
del termine. In un mondo nel quale tutti riceviamo ed elargiamo cose positive e
negative, il mio sentimento dominante nei confronti di Borges è la gratitudine
per tutto il buono che mi ha dato e che continua a darmi.
Sono stati difficili i tuoi esordi?
Nel 1970, muovere i primi passi era più facile di adesso. C’erano
molti piccoli editori, fra loro concorrenti, e un autore aveva davanti a sé un
grande ventaglio di possibilità. Ora esistono – con poche
eccezioni – grandi gruppi proprietari di diversi marchi che un tempo erano in
competizione fra loro. Sono di fatto oligopoli, guidati da logiche commerciali
e non culturali. Io ho pubblicato il mio primo libro nel 1969 con una casa
editrice di modeste dimensioni, Editores Dos, e il secondo con una gigantesca,
Seix Barral. Rendo questo salto attraverso una metafora calcistica: prima ho
giocato nel Chacarita Juniors di Federico Pizarro e poi nel Barcellona di
Lionel Messi. Credo che oggigiorno gli esordienti si trovino di fronte a
ostacoli molto più impegnativi rispetto a quarant’anni fa.
C'è stato un
momento in cui hai “deciso” che saresti diventato scrittore?
Non saprei… Cercavo di scrivere e ritenevo anche che un giorno
avrei potuto pubblicare. Certo è che, pur con contrattempi e alti e bassi, ho
ottenuto quasi tutto ciò che desideravo, e di conseguenza non posso lamentarmi…
Cosa cerchi in un
libro?
In un libro altrui, esclusivamente il piacere della lettura. In
uno mio, la regola d’oro, il “primo comandamento della legge della narrativa” è
“Non annoiare!”. Per questo tento di evitare la sintassi contorta, le
conversazioni “filosofiche”, la lentezza espositiva, i dialoghi confusi… In
sintesi, mi sforzo di non commettere quei peccati che – da lettore – mi
infastidiscono e mi irritano.
E qual è il lettore ideale delle tue opere? O
scrivi solo “per te stesso”?
Cerco di scrivere ciò che vorrei leggere. Se il lettore condivide
i miei gusti, tanto meglio; sennò, peccato: non posso farci nulla. Torno a
Denevi… Davanti ai suoi racconti mi dicevo: “Scrive esattamente come piace a
me”. Dal momento, però, che sono abituato a pubblicare ciò che scrivo, sarei
assai ipocrita se dicessi che lo faccio solo per me stesso. No: spero che altre
persone mi leggano. Però – lo ribadisco – non mi interessa soddisfare le
persone che abbiano gusti diversi dai miei.
Devi restare
dieci anni su un’isola deserta: quali sono i tre titoli che porti con te?
L’opera omnia di Borges e quella di Kafka. Però, riconosco che c’è
una piccola infrazione alla regola: poiché non sto parlando di due soli libri,
bensì di parecchi testi, mi rassegno a non portarmi un terzo titolo (che,
d’altra parte, non saprei quale potrebbe essere).
Conosci la
letteratura italiana contemporanea?
Poco, lo confesso. L’opera che mi è rimasta più impressa, per
l’idea di fondo brillantissima (un uomo che finge la propria morte), è Il fu Mattia Pascal. Inoltre, è
intervenuto un altro fattore nella mia vita: ultimamente non leggo così tanta
narrativa come prima. Piuttosto mi dedico a saggi critici e mi piacciono anche
complicati testi di linguistica, filologia e perfino di mera grammatica.
Come definisci il
genere letterario delle tue opere?
È difficile… Direi un miscuglio di narrativa fantastica, insolita
e umoristica. Non è un registro che cerco consapevolmente: mi viene spontaneo,
non potrei scrivere in altro modo.
E cosa pensi
della polemica per cui qualcuno considera la narrativa di genere un gradino
sotto rispetto alla letteratura tradizionale?
Questo giudizio contiene una gigantesca stupidaggine. Esistono
solo buona e cattiva letteratura, non generi importanti e subalterni. O
qualcuno potrebbe affermare che una tragedia mal costruita sia superiore a un
efficace sainete (farsa del teatro spagnolo, ndr)? Inoltre, chi può sostenere che sia più meritorio scrivere una
tragedia per far piangere che un sainete per far ridere? Io ho riso a
crepapelle con El conventillo de la
Paloma di Alberto Vacarezza; e non posso sopportare le tragedie di Juan
Cruz Varela. Senza dubbio, non mancheranno professori o critici che ritengono
Varela superiore a Vacarezza; io, invece, penso esattamente il contrario:
l’umoristico Alberto è infinitamente più importante del tragico Juan Cruz.
Qual è il tuo
metodo di lavoro? Preferisci buttar giù una prima traccia e poi passare a
successive stesure, oppure non “licenzi” una pagina prima che sia perfetta?
La prima ipotesi. Redigo una versione iniziale (il compito più
spiacevole) a tutta velocità e cambiando idea in continuazione, dal momento che
ciò di cui ho bisogno è mettere parole sulla carta (o sullo schermo del
computer); quelle che rimangono nella mente non mi servono. Ottenuta questa
prima bozza, la lascio “riposare” due o tre giorni senza leggerla: in questo
modo la dimentico e posso scorgere gli errori commessi come se non fossero
miei. Nelle successive stesure vado poi aggiungendo, eliminando, modificando,
fino a raggiungere la versione finale, completamente rielaborata, che
assomiglia molto poco a quella originale. Ciò che arriva al lettore è un testo
che, in realtà, ho scritto sei o sette volte.
Scrivi con metodo
e puntualità o solo quando hai l’ispirazione? Quante ore al giorno?
Diciamo che non lavoro come uno scrittore. Cioè, non ho alcuna
disciplina di orari né tanto meno scrivo tutti i giorni, ma solo quando mi
viene un’idea che ritengo possa trasformarsi in qualcosa di più o meno decente.
Una volta che comincio, possono succedere due cose: 1) se noto che procedo con
fluidità, vado avanti veloce e soddisfatto; 2) se, viceversa, avverto che le
parole mi resistono e risulta difficile dar loro la forma desiderata, allora mi
dico: “Questo racconto non era destinato a me” e lo abbandono immediatamente: non ho dubbi che il disagio avvertito mentre scrivevo si
trasmetterebbe al lettore, al quale bisogna offrire storie piacevoli e non
tediarlo con pesantissimi mattoni.
È importante il
successo letterario?
Diciamo che, quantomeno, garantisce un certo buonumore a chi lo
ottiene, e il buonumore è sempre benvenuto.
Cosa consigli a
un esordiente che sta cercando di pubblicare?
Dal punto di vista pratico, credo che ci si debba armare di
pazienza e non sentirsi sconfitti da un diniego. Dirò qualcosa che potrà suonare
antipatico o presuntuoso, e tuttavia è ciò che penso: fra l’opinione di
un’altra persona e la mia, preferisco sempre il mio punto di vista. Di
conseguenza, le poche volte che mi hanno rifiutato la pubblicazione di qualche
lavoro, mi sono limitato a pensare che quell’editore si fosse sbagliato o
avesse scarsa sensibilità letteraria.
Qual è la tua
opinione sui corsi di scrittura creativa?
Non credo che possano insegnare a scrivere, però rappresentano una
buona guida per evitare errori. Anche se l’ideale sarebbe che l’“alunno”, i
propri errori, li scoprisse ed evitasse da solo.
Chi, dopo i
primi, inevitabili rifiuti, deve insistere, e chi invece è meglio che si
arrenda e si dedichi ad altro?
Io insisterei, senza perdermi d’animo. Voglio tornare alle
metafore calcistiche… Nel 1970 io non avrei osato proporre i miei scritti agli
editori Sudamericana, Emecé o Losada, dal momento che equivalevano a River,
Boca o Racing: erano troppo importanti per un principiante come me. Allora
provai a sottoporre il mio secondo libro, Imperios
y servidumbres, a, diciamo, squadre minori argentine. E il libro, che non
fu accettato da questi editori di scarsa importanza, alla fine fu invece
pubblicato a Barcellona da Seix Barral, realtà che equivale, come ho detto, al
Barça del mio celebrato compatriota Lionel Messi.
Inchiostro, rivista di
storie e racconti da leggere e da scrivere
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